Introduzione
Venerdì 29 Novembre si è tenuta presso il Comune di Carrara una seduta straordinaria del Consiglio Comunale in occasione della festa della Regione Toscana, che ricorda il 30 Novembre 1786, quando l’allora Granducato di Toscana, sotto l’illuminato governo di Pietro Leopoldo, divenne il primo stato nella storia mondiale ad abolire la pena e la tortura.
Una delegazione del Liceo Classico Repetti, l’attuale II B, ha partecipato alla seduta.
Ai ragazzi è stata offerta l’opportunità di presentare un elaborato di massimo quindici minuti sul tema, e dopo l’intervento del Presidente del consiglio comunale, del Sindaco e del presidente provinciale dell’ANPI, i ragazzi hanno presentato il loro lavoro.
Gli alunni di II B hanno scelto di esporre una presentazione sul ruolo della pena di morte nella storia, di come essa fosse già attestata con la Stele di Hammurabi, ma soprattutto come essa abbia privato, o rischiato di privare, il mondo di illustri personaggi, sia nell’antichità, che durante la storia contemporanea. I personaggi al centro dell’esposizione sono stati due: Socrate, uno dei più grandi filosofi dell’antichità ed uno dei padri della cultura occidentale, e Dostoevskij, la cui esecuzione di condanna a morte fu sospesa quando era già sul patibolo.
La pena di morte nell’antichità
di Rodolfo Bianchini, Alessandro Figaia, Vittorio Fiaschi, Enrico Franchini e Vittoria Molendi
Secondo gli studiosi, potrebbero essere state applicate sentenze capitali a chi veniva giudicato colpevole dai capi tribù già nella preistoria. In assenza di prove scritte, tuttavia, non tutti concordano con questa interpretazione, mentre c’è unanimità nell’indicare il codice di Hammurabi quale prima fonte di diritto nella quale fu esplicitamente indicata la condanna a morte.
Il 30 novembre del 1786 Pietro Leopoldo Asburgo-Lorena, granduca di Toscana, emanò il Codice Leopoldino, grazie al quale la Toscana divenne il primo stato al Mondo ad abolire la pena di morte.
Anche nell’antica Grecia venivano decretate condanne a morte. Nel mondo ellenico, infatti, crimini contro lo Stato, sacrilegi, omicidi premeditati, uccisioni dei genitori o altri parenti prossimi potevano essere puniti con la morte del reo.
Questa pratica ha privato il mondo greco anche di alcuni illustri cittadini, spesso condannati ingiustamente, primo fra tutti il grande filosofo Socrate.
Socrate fu condannato con due capi d’accusa: empietà, perché non aveva riconosciuto gli dei tradizionali della Polis, e corruzione dei giovani. Infatti, molti figli delle classi colte divennero discepoli di Socrate, imparando a dubitare delle credenze tradizionali e costituendo un pericolo per la morale. I responsabili dell’accusa furono Anito e Licone. In quel momento Atene viveva una fase delicata della vita politica: la democrazia era stata reintrodotta, ma al governo c’erano personalità corrotte, incapaci di fare gli interessi collettivi. Per questo, l’azione filosofica di Socrate lo rendeva un personaggio scomodo.
La morte di Socrate è l’evento meglio documentato della sua vita ed “il cronista” di questo evento è Platone, che lo descrive in due dialoghi: l’Apologia e il Fedone. Nell’autodifesa Socrate condannò la classe politica e difese la libertà di coscienza del filosofo. Per questo, Socrate diventerà il simbolo dell’intellettuale che non si sottomette al potere ma lo combatte. L’accusa condannò Socrate: molto probabilmente gli accusatori si sarebbero accontentati di allontanare Socrate dalla città e l’amico Critone lo avrebbe aiutato a fuggire, ma egli rifiutò ogni aiuto; ritenne che sottoporsi al processo rappresentasse il compimento della sua missione di educatore e di filosofo per continuare a seguire la giustizia, pur essendo stato condannato ingiustamente. Quindi con la sua morte, riaffermò la fedeltà alla legge.
(Dall’Apologia di Socrate XXV – XXVI)
XXV Concorrono molte ragioni, o cittadini Ateniesi, a non farmi sentire depresso per quanto è avvenuto, vale a dire per il fatto che mi avete giudicato colpevole: la cosa infatti non mi è giunta inaspettata e sono invece molto più meravigliato del numero dei voti che definiscono le due posizioni. Io infatti non mi aspettavo proprio che ci sarebbe stata una così piccola differenza, ma pensavo al contrario che sarebbe stata molto più rilevante. A conti fatti, come pare, se solo una trentina di voti fossero andati dall’altra parte, ne sarebbe derivata la mia assoluzione. A me pare dunque di averla spuntata con Meleto, non solo, ma una cosa almeno è chiara per tutti, che se Anito e Licone non si fossero fatti avanti per accusarmi egli, non avendo ottenuto la quinta parte dei voti, mi sarebbe stato debitore di mille dracme.
XXVI Quest’uomo comunque reputa che io meriti la morte. E va bene; che pena vi proporrò da parte mia come contropartita, o cittadini Ateniesi? Non è evidente che proporrò una pena adeguata? Quale dunque? Quale pena fisica o pecuniaria mi compete, perché non ho fatto una vita tranquilla, trascurando le cose che interessano ai più, vale a dire la ricchezza e gli interessi familiari, nonché l’autorità, gli appelli al popolo, le varie magistrature, le consorterie e le fazioni politiche; perché, pensando di valere troppo per poter trovare la salvezza cacciandomi in mezzo a faccende di questo genere, non mi sono dedicato ad attività che, se avessi intrapreso, non sarei stato di alcuna utilità né a me stesso né a voi, ma, teso a fare il massimo bene possibile a ogni persona in privato mi sono dato, come io sostengo, a convincere ognuno di voi a non curarsi di nessuno dei suoi interessi prima che di se stesso, per diventare il migliore e il più saggio possibile, e non degli affari della città prima che della città stessa e in tutto ad agire secondo questo criterio; quale pena dunque mi compete, avendo agito così? Un premio, cittadini Ateniesi, se si deve fare una valutazione conforme alla verità secondo il merito, e precisamente un tipo di premio che vada bene per me. Che cosa dunque si confà a un uomo povero che vi ha fatto del bene, il quale ha bisogno di poter disporre di tutto il tempo per indurvi alla virtù? Non c’è più conveniente ricompensa, cittadini Ateniesi, che il mantenere un uomo simile nel Pritaneo, e a molto maggior ragione che se si trattasse di un vincitore con il cavallo, la biga o la quadriga alle Olimpiadi. Costui infatti ottiene che voi sembriate felici, mentre io opero perché lo siate veramente, e mentre lui non ha bisogno di essere mantenuto, io ne ho bisogno. Se dunque bisogna che io proponga una giusta pena secondo il merito, mi si configura come il mantenimento nel Pritaneo.
(Dal Fedone LXVI-LXVII)
E poi ancora gli premette le gambe. E così, risalendo via via con la mano, ci faceva vedere com’egli si raffreddasse e si irrigidisse. E tuttavia non restava di toccarlo; e ci disse che, quando il freddo fosse giunto al cuore, allora sarebbe morto. E oramai intorno al basso ventre era quasi tutto freddo; ed egli si scoprì — perché s’era coperto — e disse, e fu l’ultima volta che udimmo la sua voce, — O Critone, disse, noi siamo debitori di un gallo ad Asclèpio: dateglielo e non ve ne dimenticate. — Sì, disse Critone, sarà fatto: ma vedi se hai altro da dire. A questa domanda egli non rispose più: passò un po’ di tempo, e fece un movimento; e l’uomo lo scoprì; ed egli restò con gli occhi aperti e fissi. E Critone, veduto ciò, gli chiuse le labbra e gli occhi.
LXVII. Questa, o Echècrate, fu la fine dell’amico nostro: un uomo, noi possiamo dirlo, di quelli che allora conoscemmo il migliore; e senza paragone il più savio e il più giusto.